‘Il più bel trucco del diavolo’ – si legge nelle motivazioni della Giuria, composta da Daria Bignardi, Giovanni Dozzini, Luca Gatti, Antonella Lattanzi, Gabriella Mecucci, Francesca Montesperelli, Giacomo Papi e la presidente Simona Vinci -, si apre e si chiude con un “lieto” evento, il lieto evento per eccellenza, ovvero, un matrimonio, un matrimonio d’amore e, forse, reciproca “salvezza”. In mezzo, tra l’inizio e la fine del romanzo ci sta un’abissale vicenda che ha riempito le cronache e che continua, nonostante le indagini, le condanne effettive scontate, la risoluzione di molti degli enigmi, a mostrare delle faglie che soltanto la letteratura potrebbe essere in grado di scandagliare. E in effetti, è quello che Gianluca Herold fa in questo romanzo che potremmo definire un “crime”, ma che non è questo soltanto, che potremmo intendere come una ricostruzione giudiziaria, ma che non è questo soltanto.
Piuttosto, un romanzo che attinge sia al crime che al romanzo di indagine e a quello di formazione: un’interrogazione sull’origine del male, sullo sbieco dell’infanzia e della giovinezza, sui traumi familiari, su contesti sociali nei quali la tenerezza si confonde con la violenza, la droga entra sparata come un proiettile nelle vite di famiglie all’apparenza “normali”. Con il rigore scientifico di un osservatore esterno mai compiaciuto ed estetizzante, mai giudicante o moralizzatore, Herold ricostruisce la vicenda umana di Andrea Volpe e delle Bestie di Satana, una banda di serial killer attivi alla fine degli anni 90 nella zona del varesotto. Dalle parti di Truman Capote quando scrive “A sangue freddo” e dell’immenso William T. Vollmann, osservatore tenero e imparziale delle miserie umane, storiche e sociali, del Novecento, Herold ci consegna un romanzo teso, commovente, di costruzione impeccabile, con un utilizzo intensivo e calibrato, intuitivo per il lettore, dei flashback che ricostruiscono le varie vicende senza mai soffermarsi sul truce e sul macabro che sanguinano da questa storia di omicidi senza una ragione e una consapevolezza effettive, di riti satanici abbastanza risibili, conditi da cocaina, eroina e droghe varie. Il narratore, che pure è presente tutto il tempo, vigile e delicato, non compare che sul finale del libro per raccontarci come sia stato possibile affrontare tonnellate di materiale giudiziario, setacciarlo, riuscire a convincere l’imputato principale, Andrea Volpe, appunto, condannato e ora, finalmente libero, intento a ricostruirsi una possibile nuova vita, ad incontrarlo e a stabilire con lui qualcosa che somigli a un rapporto di fiducia.
Un testo sorprendente per maturità stilistica e misura. Un autore che, già dalla sua prima prova si conferma capace di padroneggiare una materia tanto oscura quanto sfuggente, riuscendo a cauterizzare le ferite, suturare i tagli e darci modo, in quanto lettori, di sporgerci sopra un abisso. Violenza insensata, ferocia senza risposte, abuso di sostanze psicotrope, patologie psichiatriche, tutte le possibilità del male – ma anche una possibile redenzione. Una redenzione durissima, senza pentimento, senza scuse: ciò che è accaduto e ha distrutto materialmente e psicologicamente moltissime vite umane intorno a sé non può in alcun modo essere emendato. Solo osservato, riconosciuto, detto, raccontato, scritto, trasformato in letteratura. Verso il finale, Herold riporta le parole di Andrea Volpe alla sua psicologa, “…da un certo punto della mia vita in avanti è come se avessi incontrato solo persone traumatizzate. In tanti si sono chiesti com’è che io e i miei coimputati ci siamo trovati – così: i traumi si parlano.” Grazie a Gianluca Herold per aver trovato la mano ferma e il ciglio asciutto nell’indagare questo intreccio di traumi senza, appunto, far tremare le pagine.
Il Premio, promosso dalla Regione Umbria in collaborazione con l’Associazione Culturale Severino Cesari, conferma il proprio ruolo nel valorizzare le voci nuove e più promettenti della narrativa italiana contemporanea.






